Giuseppe Di Stefano: tenore assoluto
di Giancarlo Landini
Siciliano, cresciuto a Milano, Giuseppe Di Stefano, era nato per il canto.
Ogni volta che intonava una melodia, lasciava tutti incantati: il direttore del Coro del Seminario, dove mosse i primi passi nella musica, il pubblico dei caffé chantant di Milano, dove si esibiva come Nino Florio, i dirigenti del Campo d’internamento in Svizzera, che lo misero in contatto con la Radio della Suisse Romande, dove incise i primi dischi, quello della Scala. Lì, nel 1947 cantò nella Manon di Massenet. Franco Abbiati, critico tra i più severi, avaro di lodi, sul «Corriere della sera» di domenica 16 marzo dettò una recensione, che vale la pena rileggere per cogliere il clamore suscitato da Di Stefano: “L’attuale edizione di Manon… presentava… la bella voce di un nuovo giovane tenore. Figuratevi se non bastava. Grande irresistibile attrattiva quella di un tenore promettente, tale che può dare da sola il tono ad una rappresentazione, che può indirettamente galvanizzare interpreti ed esecutori, elettrizzare pubblici, svegliare critici e confortare gli impresari e gli amministratori di qualsiasi stagione lirica. Se poi la stagione è quella della Scala e l’opera melodiosa è quella del “picciol desco” e dell’immortale “sogno”, allora è gran festa per lo spettacolo e per chi vi assiste. Sta di fatto che il teatro era ancora una volta esaurito. Quello che importa, la magnifica folla degli spettatori pendeva tutta quanta dalle labbra o per di meglio dalla gola di quel tenorino… E il cavaliere Des Grieux, al secolo Giuseppe Di Stefano, si è fatto agevolmente la parte del leone, vale a dire ha fatto breccia nel cuore degli ascoltatori che l’hanno colmato di soddisfazioni applaudendo freneticamente lo slancio e le lucentezze dei suoi accenti anche di più la loro intima commozione graduale ma soprattutto sentita fino alle più delicate e sottili sfumature del suono. Bravo dunque Di Stefano.” La Scala divenne il suo teatro, dove rivaleggiò con grandi colleghi, da Mario Del Monaco a Franco Corelli, risultando sempre primo nel cuore degli spettatori. Negli anni Cinquanta, all’apice del successo, il pubblico lo aspettava alla fine degli spettacoli e lo assediava in Piazza della Scala, perché a notte inoltrata cantasse ancora un’aria o una canzone. Il traffico si fermava, il tram apriva gli sportelli, per fare scendere i passeggeri, la gente lo issava sul tettuccio del taxi e Pippo cantava sotto le stelle.
Le platee d’Italia e del mondo intero hanno amato Di Stefano. Nell’America Latina ha lasciato ricordi memorabili nelle recite al Palau di Mexico City. Negli States è diventato l’idolo degli americani. Al Met di New York, nelle mitiche recite del Faust, lasciava il teatro a bocca aperta con il do filato della Cavatina. Arturo Toscanini lo volle alla Carnegie Hall nel 1951 per una memorabile esecuzione della Messa da Requiem. Quando intonava “Hostias et preces tibi” la voce galleggiava sull’orchestra e teneva il pubblico sospeso, come rapito. Alla Staatsoper di Vienna era sempre salutato da successi straordinari. Si è esibito con le più celebri cantanti del suo tempo da Mafalda Favero, a Giulietta Simionato, a Renata Tebaldi. Con Maria Callas ha stabilito un rapporto artistico strettissimo. A volte fu burrascoso. Ma durò tutta la vita. Fu Di Stefano ad accompagnarla negli ultimi concerti in giro per il mondo. Il pubblico impazziva al solo vederli con reazioni, che richiedono il commento di uno psicologo e non di un critico.
Il repertorio di Pippo Di Stefano andava dal Conte D’Almaviva del Barbiere di Siviglia, al Nemorino dell’Elisir d’amore, all’Edgardo della Lucia di Lammermoor, cantato sotto la direzione di Herbert von Karajan, al Duca di Mantova del Rigoletto, all’Alfredo della Traviata, al Don Alvaro della Forza del Destino, al Riccardo di Un Ballo in Maschera, di cui alla Scala con la Callas, diretto da Gavazzeni, diede un’interpretazione memorabile. E ancora Don José della Carmen e Puccini con Rodolfo della Bohème, Cavaradossi della Tosca, Calaf della Turandot. Il Verismo con l’inarrivabile Turiddu della Cavalleria rusticana e il Canio dei Pagliacci.
La carriera teatrale è andata di pari passo con l’incisione di dischi, che hanno portato la voce di Pippo Di Stefano in tutti gli angoli del mondo.
Il timbro meraviglioso, l’innata musicalità, il canto spontaneo, naturale, moderno, spesso al di là delle regole, la dizione chiarissima, l’accento incisivo erano al servizio di un temperamento elettrizzante, così che il risultato artistico era sempre travolgente.
Ho conosciuto Di Stefano attraverso una telefonata. Mi rimproverava di essere stato ingiustamente severo nel recensire una sua incisione. Discutemmo, diventammo amici. Realizzammo assieme il video sulla sua carriera, pubblicato dalla Hardy. Lo rividi a Trapani, durante il Concorso a lui intitolato. L’ho incontrato per l’ultima volta a Santa Maria Hoé in Brianza, dove si era ritirato con la moglie, Monica Kurz. Festeggiava l’ottantesimo compleanno. Il sigaro sempre tra le labbra. Il saluto cordiale e galante a mia moglie. Ci spiegò il segreto dei tanti amici. A differenza dei suoi colleghi, non annoiava gli altri con il ricordo dei suoi trionfi. Non ce n’era bisogno. Appartengono alla storia di una favolosa carriera, la cui ultima tappa era ed è il Concorso Internazionale che porta il suo nome.